Call center in Albania
Call center in Albania, centri di profitto per tanti imprenditori italiani
Un lavoro che in Italia è stato a lungo visto come l’ultima frontiera del precariato, a sessanta chilometri di mare è percepito positivamente da migliaia di giovani albanesi. L'Albania e i call center, tra opportunità e contraddizioni
Un lavoro che in Italia è stato a lungo visto come l’ultima frontiera del precariato, a sessanta chilometri di mare è percepito positivamente da migliaia di giovani albanesi. L'Albania e i call center, tra opportunità e contraddizioni
In Italia la diffusione dei call center risale
agli anni 2000, ma è solamente nel 2008, grazie a un riuscitissimo film
di Paolo Virzì, che questa realtà lavorativa entra nel nostro
immaginario collettivo. "Tutta la vita davanti", amara e grottesca
commedia tratta dal libro "Il mondo deve sapere" di Michela Murgia,
racconta la storia di Marta, ventiquattrenne d'animo buono laureata cum
laude in filosofia: una delle tante voci senza volto cui tutti abbiamo
chiuso il telefono in faccia, almeno una volta. Quello che il film non
racconta, è che Marta, molto spesso, è albanese.
I call center, un business contemporaneo
I call center si dividono in due macrogruppi: i
centri inbound ricevono le telefonate, fornendo il più delle volte un
servizio di assistenza clienti; i centri outbound invece le effettuano,
attuando campagne pubblicitarie o promozionali (è il cosiddetto
telemarketing). Per aprire un call center non è necessario un grande
investimento iniziale: basta un locale dotato di computer (magari di
seconda mano) e allacciamento internet.
In sostanza, il costo principale è il lavoro. Come ben spiegato in "
Operatore 451
"- un simpatico blog che raccoglie i pensieri e le riflessioni dei
giovani che hanno conosciuto da vicino quel mondo lavorativo - l'habitat
ideale per questo tipo d'impresa è stato per lungo tempo il Mezzogiorno
italiano. Grazie ai benefici della legge 407 del 1990, nata anche per
combattere la disoccupazione nel meridione, se un’impresa assume in
Calabria, Puglia, Sicilia o Campania, per tre anni sostiene un costo del
lavoro inferiore a quello dei concorrenti del centro-nord - a questi
sgravi fiscali vanno poi aggiunti i Fondi strutturali europei a supporto
dell’occupazione nelle regioni del sud.
Allo scadere dei tre anni, il costo del lavoro è
però destinato a crescere: l'azienda dovrà necessariamente aumentare la
tariffa al committente, il quale, molto probabilmente, preferirà
rivolgersi altrove. Dopotutto, quando il costo principale è il lavoro,
la competitività si costruisce sui salari: inizialmente precarizzando,
poi esternalizzando e delocalizzando. Dove? Vicino a casa.
Perché in Albania
I call center attivi sul mercato italiano
iniziano a diffondersi in Albania a partire dal 2005. Un fenomeno dalle
dimensioni notevoli, ma che non sorprende, da nessun punto di vista.
Tanto per cominciare, in Albania la formazione linguistica non
rappresenta un problema: cresciuta a Rai e Mediaset per tutti gli anni
Novanta, buona parte dei ragazzi albanesi che oggi ha tra i venti e i
trent'anni parla fluentemente l'italiano, a prescindere dai propri
studi.
Ancora più importante, nel Paese delle Aquile
il costo del lavoro è tre volte inferiore a quello italiano, inclusi i
costi delle infrastrutture e dell'affitto locali. Secondo
Monitor
, una rivista economica albanese, l'attivazione di una singola
postazione di operatore (comprensiva di scrivania, server e
allacciamento internet) costa circa 600 euro. Questo significa che per
aprire un call center di medie dimensioni in Albania basta un
investimento iniziale di 60.000 euro. Una volta avviato, le spese
salariali, comprensive di stipendio e contributi allo stato albanese,
rappresentano fino al 70% dei costi totali. La prima ragione per
attraversare l'Adriatico è dunque la manodopera: in Albania la paga
media di un operatore sta tra i 280 e i 350 euro al mese, rispetto ai
900-1000 euro italiani. È facile capire come colossi come Vodafone,
Wind, Sky Italia abbiano deciso di esternalizzare, appaltando il loro
servizio clienti a call center su suolo albanese, mentre altre affermate
aziende italiane abbiano addirittura scelto di aprire una propria sede a
Tirana.
Attualmente, il numero dei call center operanti
nel paese - non solo nella capitale, ma anche a Durazzo, Valona e
Scutari - si aggira attorno al centinaio, tuttavia, sempre secondo
Monitor, sono tre o quattro compagnie colosso a possedere la metà del
mercato: Intercom Data Service (IDS), che nel 2013 contava 3000
impiegati, Teleperformance (1200 impiegati) e Albacall (più di 1000
dipendenti). Se la multinazionale francese Teleperformance opera in 63
lingue ed ha aperto a Tirana solamente una delle sue quaranta sedi
sparse in tutto il mondo (Italia inclusa), IDS lavora quasi
esclusivamente per aziende italiane e la sua storia è decisamente
italo-albanese: il suo giovane proprietario, Agron Shehaj, è uno dei
migranti degli anni Novanta. Dopo aver ultimato gli studi in Italia, da
otto anni è tornato in Albania per mettersi a capo di un’armata di
giovani che vedono nel loro capo il riscatto di un'intera generazione.
La sua storia, emblematica della transizione albanese - fatta di andate
ma anche di ritorni - è non a caso posta a conclusione del film "
Anija - La Nave
", eccellente documentario del regista albanese Roland Sejko.
Anche
Albacall
ha forti legami con l'Italia: è sotto la proprietà di Abramo holding,
colosso calabrese di Sergio Abramo
, sindaco di Catanzaro ed ex presidente di Assocontact, una delle più
importanti associazioni di categoria che riunisce i proprietari di call
center.
A differenza di IDS,
Albacall
opera su diversi mercati nazionali: come si evince dalla
sua pagina FB
, in Albania cerca operatori in grado di parlare non solo l'italiano,
l'inglese, lo spagnolo, il francese, il turco o il greco, ma persino
l'arabo, il giapponese, il cinese, il russo, il polacco... Il mercato
inglese, greco e negli ultimi anni anche turco e tedesco, sono in
effetti diventati i nuovi obiettivi di molti call center albanesi sempre
meno
Italy-oriented
, ma per questi nuovi segmenti di mercato il servizio è ancora in via di sviluppo.
È difficile trovare dati attendibili sugli albanesi attualmente impiegati nei call center.
Monitor
indica una cifra tra le 10.000 e le 20.000 persone in tutta l'Albania,
di età media compresa tra i 20 e i 22 anni, ma non vi è dubbio sul fatto
che molti di loro sono studenti: la paga copre le spese universitarie e
la flessibilità dei turni consente di frequentare. Anche se non ancora
laureato, per un albanese bilingue non è difficile diventare operatore:
Duapune.com
e
Njoftime.com
, i due portali di lavoro più cliccati del paese, riportano
quotidianamente annunci di call center, mentre per le strade di Tirana, a
volte all'esterno degli stessi uffici, sono affissi costantemente
cartelli promozionali che invitano i passanti a entrare e a lasciare il
proprio CV. Apparentemente, in Albania i call center non smettono mai di
assumere.
Un lavoro, due lavoratori
Un lavoro che in Italia è stato a lungo
percepito - e forse ancora lo è - come l’ultima frontiera del
precariato, a sessanta chilometri di mare è origine di soddisfazione per
migliaia di giovani albanesi. In verità, parallelamente alla crisi, la
delocalizzazione di questo tipo di servizi ha fatto cambiare idea ad
altrettanti lavoratori italiani: persone riemerse dagli abissi della
disoccupazione o del lavoro
nero proprio grazie ad un impiego
nei call center, lavoratori non più giovanissimi, che farebbero
certamente fatica a ricollocarsi. Ai tempi della Riforma Fornero il
governo Monti si occupò della materia, cercando di arginare la
delocalizzazione a favore dei posti di lavoro italiani; tuttavia, come
impietosamente descritto da Salvatore Cannavò sul Fatto Quotidiano,
l'unica misura veramente concorrenziale sarebbe quella di importare il
costo del lavoro albanese.
Intervistato da Repubblica sui malumori dei
sindacati italiani e sui possibili provvedimenti del governo, Agron
Shehaj rispose non a caso con un sorriso: "Preoccupato? Poco. Sono i
nostri clienti ad assicurarci che continueranno a investire qui. È nel
loro interesse. E poi non capisco: quando gli albanesi sbarcavano a
ondate gli italiani avrebbero pagato per rispedirli indietro, ma
qualcosa dovete pure lasciarci fare, no?".
Un'affermazione, quest'ultima, che suonerebbe
odiosa e strumentale, se non fosse che a pronunciarla è una persona che
arrivò in Puglia sulle navi della disperazione. In fin dei conti, Agron è
un imprenditore, e l'onestà intellettuale non gli manca: "Mi sono
ispirato all’esperienza dell’India che lavora per l’Inghilterra".
Allo stesso modo, nessun sindacato potrebbe mai
permettersi di sindacare la soddisfazione dell'operatrice Jetmira
Ramolli: "Lavoro nei call center da quando avevo 17 anni e studiavo al
ginnasio, ora ne ho 24 e studio Economia all'università di Tirana.
Lavoro sei ore al giorno e guadagno 350 euro al mese: un ottimo
stipendio, sì. Prendo più di un cameriere o una commessa, e l'orario
flessibile mi permette di studiare".
Un lavoro, una contraddizione
Di lavoro, non vi è dubbio, c'è bisogno. Specie
in un paese come l'Albania, dove tutto cresce, disoccupazione inclusa, e
dove il welfare famigliare - ciò che mantiene buona parte dei giovani
italiani - è pressoché inesistente. Se "il lavoro nobilita l'uomo", è
altrettanto vero che il meritato successo di Agron e la comprensibile
allegria di Jetmira poggiano su una contraddizione. L'antinomia,
squisitamente contemporanea, è delle più classiche, e riguarda il
rapporto tra economia e politica.
Un'Albania europea, legislativamente
eurointegrata, economicamente più forte, culturalmente più aperta
smetterebbe immediatamente di essere la patria d'elezione dei call
center. Un fenomeno simile è osservabile in Romania, storica terra di
delocalizzazione italiana che nel 2007 ha varcato i confini dell'Unione.
Tuttavia, è un dato di fatto, sia il governo albanese che gli
imprenditori italiani preferiscono ancora oggi investire sulla
contraddizione: a Rama, è politicamente logico, interessa assorbire la
disoccupazione interna; agli imprenditori italiani, è economicamente
legittimo, interessa massimizzare i profitti.
I giovani albanesi, dopotutto, hanno "tutta la
vita davanti". Nell'Albania di domani, probabilmente senza call center,
qualcuno si accorgerà anche di loro. Di quel fattore socio-economico
che, curiosa coincidenza, dà il titolo ad un altro film di Paolo Virzì:
"Il capitale umano". Fonte: ww.balcanicaucaso.org
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